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“Bohemian Rhapsody”, “Rocketman”, “Elvis” e ora “Bob Marley - One Love”: questi sono i titoli dei più recenti biopic musicali, film che raccontano origine, ascesa e trionfo delle personalità più influenti della storia della musica, le cui canzoni risuonano ancora oggi nelle nostre menti, anche a decenni dalla loro scomparsa.
Il genere dei biopic musicali esiste da decenni, ma ha visto una forte spinta produttiva soprattutto negli ultimi anni, dopo l’enorme successo di “Bohemian Rapsody”, per il quale Rami Malek aveva vinto l’Oscar al miglior attore protagonista. Per gli anni a venire sono già in cantiere altri biopic su leggende della musica quali Amy Winehouse, Michael Jackson, Bob Dylan e i Bee Gees e sicuramente se ne progetteranno ancora tanti altri.
La domanda sorge spontanea: perché amiamo tanto questo genere di film? Facendo qualche indagine tra appassionati del genere si scopre che ci sono diversi motivi: la volontà di conoscere la vita privata di questi protagonisti della musica per scoprire come questa abbia influito sulla loro arte, così da poterla apprezzare con maggior consapevolezza; ma anche la curiosità di vedere il modo di lavorare, il processo creativo e la ricostruzione di concerti memorabili, soprattutto per i più giovani che quei concerti non li hanno potuti vivere in diretta. Insomma quello che vogliamo sapere è come sono nate le canzoni che fanno da colonna sonora per tanti momenti della nostra vita.
Oggi allora parliamo dell’ultimo biopic musicale uscito al cinema, “Bob Marley - One Love”, nelle sale dal 22 febbraio, per la regia di Reinaldo Marcus Green e con protagonisti Kingsley Ben-Adir e Lashana Lynch nei panni di Bob e Rita Marley. Autorizzato e sostenuto dalla famiglia Marley, il film racconta il periodo che va dal 1976 al 1978, iniziato con l’attentato subito da Bob e Rita prima del concerto Smile Jamaica, organizzato per riappacificare i due principali partiti politici del paese, e terminato con il grande concerto One Love Peace Concert sempre in Giamaica. In questo arco di tempo sono successi fatti fondamentali nella vita di Marley, che ha fatto una tournée europea, ha inciso uno dei suoi album di maggior successo, Exodus, e ha scoperto di avere un melanoma, che lo avrebbe poi portato alla prematura scomparsa nel 1981, a soli 36 anni.
Chi cerca una ricostruzione completa o del tutto fedele della vita di Marley non la troverà in questo film, che comincia quando lui è già famoso, scelta controcorrente rispetto ai precedenti biopic musicali. Il film racconta lati luminosi e lati bui della personalità di Marley, dalla sua volontà di cambiare il mondo attraverso i messaggi di pace del suo credo messi in musica, al suo ruolo di marito con molti difetti e di padre assente. Il film quindi non cade nel rischio dell’agiografia, ovvero della costruzione di un’aura di sacralità attorno al personaggio, anzi cerca di mostrarne anche i lati più umani. I momenti in cui il film riesce meglio sono il racconto del rapporto con la moglie Rita e la genesi di Exodus, ovvero il racconto delle fasi di creazione e registrazione delle canzoni, in particolare di Jamming.
Purtroppo però il film non rientra tra i biopic musicali meglio riusciti per diverse ragioni: l’abbandono del padre raccontato con flashback onirici ridondanti; la spiegazione del rastafarianesimo fatta in modo abbastanza generale, confidando sul fatto che il pubblico già ne conosca i principi (cosa inverosimile); la complessa situazione politica giamaicana spiegata solo con qualche didascalia a inizio film; i concerti presenti fin dall’inizio che così non assumono la potenza e centralità che di solito hanno in questi film…Insomma si raccontano tante cose ma non se ne approfondisce bene nessuna: si può considerare una discreta introduzione all’artista per chi non lo conosce, per spingere a fare ricerche in autonomia sul personaggio e sui messaggi che voleva trasmettere, ma non resterà sicuramente impresso come altri film del genere.
Una cosa che il film riesce a fare molto bene invece è riportarci a un tempo in cui la musica non era solo intrattenimento ma era molto di più, era messaggio sociale, politica, contestazione, rivoluzione. Dopo un festival di Sanremo in cui qualcuno ha proposto una sorta di DASPO per gli artisti che usano il palco per fare politica (ovvero semplicemente parlare di attualità) viene da pensare che se idee del genere fossero venute all’epoca un personaggio come Bob Marley non avrebbe mai potuto cantare su un palco in vita sua, e che gran perdita sarebbe stata allora!
Alberti Aurora