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La scorsa settimana, durante la cerimonia degli Oscar, il premio per il miglior film internazionale è stato assegnato a “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer. Oggi allora vogliamo parlare più nello specifico di questo film, che rivoluzionerà il modo di raccontare l’Olocausto al cinema.
Per capire la prospettiva del film è bene partire da una domanda: che cosa significa il titolo? La zona d’interesse è la traduzione di una parola tedesca, Interessengebiet, coniata dai burocrati delle SS e utilizzata per riferirsi a un’area di 40 km quadrati attorno al campo di concentramento di Auschwitz, dove vivevano gli ufficiali e le guardie. Il film, liberamente tratto dall’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis, racconta la vita quotidiana del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss (Christian Friedel) e della sua famiglia, composta dalla moglie Hedwig (Sandra Hüller) e da cinque figli, i quali vivono in una casa con un grande giardino che condivide il muro di cinta con il campo di concentramento. Il regista ci mostra la vita di una famiglia borghese felice, un padre affettuoso molto impegnato col lavoro e una madre energica che manda avanti tutta la casa; nel tempo libero la famiglia organizza picnic, scampagnate, giornate in piscina con gli amici. È un ritratto di vita così pittoresco, quasi bucolico, che per un attimo forse verrebbe voglia di andare a vivere in questa casa e nel suo splendido giardino, se non fosse per il rumore costante.
Sì perché la grande innovazione di questo film sull’Olocausto, oltre alla prospettiva totalmente nuova, che ci racconta la storia dal punto di vista dei carnefici invece che delle vittime, è il comparto sonoro. Il regista ha creato due film in uno: quello che si vede è la storia della spensierata famiglia Höss, quello che si sente è la storia di Auschwitz e dell’Olocausto, raccontata solo per suoni invece che per immagini. Si sentono continuamente urla, cani che abbaiano, spari, rumori di treni, che per la famiglia sono diventati un sottofondo normale, a cui non fanno nemmeno caso, mentre per lo spettatore sono il continuo promemoria di ciò che succede al di là del muro, dell’orrore che non è possibile ignorare. In certi momenti è la musica a prendere il sopravvento, ed è una musica terribile, fatta di suoni spaventosi che sembrano urla, che servono a ricordare sempre l’Inferno che c’è dall’altra parte del muro e che la famiglia ignora consapevolmente, preferendo restare chiusa nel suo piccolo mondo dorato ricoperto di fiori, piantati apposta per “nascondere la vista”. L’importanza fondamentale del suono in questo film è stata riconosciuta proprio la scorsa settimana agli Oscar, dove il film ha vinto il premio per il miglior sonoro, oltre al premio per il miglior film internazionale.
L’atteggiamento di totale indifferenza della famiglia verso l’orrore che sta accadendo appena al di là del muro della loro casa, non può far altro che ricordarci Hannah Arendt e il concetto della banalità del male, da lei elaborato durante il processo ad Adolf Eichmann: nella maggior parte dei casi questi grandi ufficiali nazisti non erano dei carnefici esaltati con mire di sterminio, ma meri funzionari, burocrati che meccanicamente eseguivano gli ordini arrivati dall’alto, che lavoravano al meglio delle loro capacità nella speranza di ottenere una promozione, come se il loro fosse un lavoro come qualsiasi altro, anche se in realtà lavoravano per sterminare di milioni di persone. Il film di Glazer racconta perfettamente questo quadro agghiacciante: Höss è (in apparenza) sano di mente, è un buon padre e un marito amorevole, che pensa al bene della famiglia e alla carriera. Proprio il fatto di sembrare una persona normale lo rende ancora più mostruoso.
Il film rientra certamente nel “genere” dei film sull’Olocausto ma in realtà, attraverso una storia del passato, vuole mandare un forte messaggio anche a noi nel presente, dicendoci di prestare attenzione al mondo che ci circonda e non essere indifferenti, perché è stata l’indifferenza a scrivere tante pagine buie della Storia. Se ancora non avete visto questo film recuperatelo (possibilmente al cinema) perché diventerà sicuramente un punto di riflessione importante per nuove prospettive sul racconto dell’inenarrabile al cinema.
Alberti Aurora