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Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il nuovo film di Gianni Amelio, “Campo di battaglia”, racconta la tragedia di una generazione perduta tra le trincee della Grande Guerra e l’epidemia di spagnola.
Sono tre i protagonisti di questa storia ambientata nell’ultimo anno della Grande Guerra, che Amelio ha scritto ispirandosi al romanzo “La sfida” di Carlo Patriarca: gli ufficiali medici Giulio (Alessandro Borghi) e Stefano (Gabriel Montesi), amici d’infanzia che lavorano insieme in un ospedale militare ma avendo visioni opposte sul loro dovere, e Anna (Federica Rosellini), tenace infermiera che porta avanti il suo lavoro mettendo alla prova le sue convinzioni. Stefano è quasi spietato nel suo lavoro, ossessionato dal dover rimandare al fronte più soldati possibili perché convinto che molti di loro si siano feriti da soli pur di non tornare a combattere, mentre Giulio cerca di aiutarli facendo infettare le loro ferite pur di rispedirli a casa, magari mutilati, ma almeno vivi.
Il vero “Campo di battaglia” del film è quello tra due etiche, tra due visioni della guerra e quindi del mondo: da una parte quella patriottica, dettata dalla propaganda inculcata negli anni, da un senso del dovere che porta a pensare che “La guerra è un dovere, disertare è tradire”; dall’altra una visione più disillusa, che ha capito che nella guerra non c’è niente di onorevole e che bisogna sfruttare la propria posizione per salvare quante più persone possibile.
Come ha sottolineato più volte il regista, questo non è un film di guerra ma sulla guerra, perché il conflitto non si vede nemmeno, perciò non c’è possibilità di spettacolarizzarlo come fanno tanti altri film. Qui si raccontano gli effetti della guerra su una generazione perlopiù inconsapevole, mandata al macello con la promessa della gloria. Ottima in questo senso la rappresentazione dei soldati che, riuniti da ogni parte d’Italia in un’unica trincea, nonostante le barriere linguistiche riescono a capirsi, perché uniti da un sentimento di terrore e di sgomento per una guerra di cui non trovano il senso.
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A livello narrativo il film è diviso in due parti: nella prima il racconto si concentra sull’ospedale militare, sui soldati feriti e sui dilemmi etici dei medici, nella seconda si concentra sulla fine della guerra, quando subentra l’epidemia di spagnola, arrivata in Italia nel 1919 e capace di causare centinaia di migliaia di morti. Questa seconda parte del film non può che ricordare la recente pandemia, anche grazie a una potente scena in cui i morti vengono caricati su camion che partono in fila, in un rimando ai camion carichi di morti di Bergamo, che tutti ancora ricordiamo. Il passaggio tra i due momenti del film si sente molto, sembra quasi di assistere a due storie diverse, il cui trait d’union è il personaggio di Anna, che tra le due parti mette in dubbio le sue convinzioni dettate dalla propaganda e decide di passare dalla parte di Giulio per aiutarlo nella sua missione.
“Campo di battaglia” non è un film dove ci sono buoni e cattivi, una parte giusta e una sbagliata, ma c’è una profonda riflessione su come il contesto di guerra e il senso del dovere e dell’obbedienza estremizzino i caratteri e talvolta rendano le persone disumane senza che riescano ad accorgersene.
Alberti Aurora